A proposito di inclusione dei migranti: uno sguardo da Bologna







Ayman, ma non è il suo vero nome, è nato a Mogadiscio, ha 23 anni ed è uno di quelli che quando scoppiò la guerra civile in Libia si trovava a Tripoli, dove lavorava come manovale per una impresa edile, sfruttato e sottopagato, ma a sbarcare il lunario ci riusciva.




Era dovuto scappare un paio d’anni prima dalla Somalia, come ha fatto quasi una generazione intera, poiché in quel paese non esiste uno Stato strutturato, esistono territori in balia di chi è più forte, è in questo momento l’organizzazione più radicata, ancor di più dello Stato stesso, è al-Shabaab, succursale di al-Qaeda. Questa organizzazione, che sparge il terrore, significa proprio gioventù, perché sono i giovani che possono rinsaldare le fila della loro organizzazione militare, e l’unico modo per salvarsi è la fuga.



Quando Ayman s’imbarcò da Tripoli per Lampedusa, per sfuggire alla guerra civile che vide soccombere Gheddafi, sapeva che il viaggio era pericoloso, ma restare a tripoli significava morte sicura: "Siamo stati fortunati – sottolinea – molti nostri fratelli in quel mare ci sono rimasti…" Ma una volta arrivato in Italia non poteva immaginare come sarebbe stato difficile inserirsi nel contesto sociale di una città come Bologna.



Ha preso la licenza media, continua a frequentare i corsi di Italiano e la sua capacità di linguaggio migliora sempre di più. Ha una voglia quasi spasmodica di costruire un progetto di vita in Italia, per quanto non capisce tanto bene l’ostracismo da parte di tanta gente nei confronti dei profughi. Si perché la gente comune che Ayman incontra per strada non sa e non vuole sapere niente della Somalia, di al-Shabab e del fatto che chi scappa per salvarsi da una guerra deve essere accolto e integrato, come dice l’articolo 10 della Costituzione italiana e come dice il Trattato di Ginevra del 1951 sull’asilo politico, di cui l’Italia è firmataria.



Però per molti italiani Ayman è venuto a togliere il lavoro a chi c’è nato in questo paese. "Il lavoro qui non c’è neanche per gli italiani!" è la frase ricorrente che si sente dire dalla "brava gente italica", e questo è un punto centrale di tutta la questione relativa ai migranti. Vediamo perche…


Ayman come il novanta per cento dei cittadini africani che vengono in Italia ha delle straordinarie abilità manuali, sa fare il sarto e anche il piastrellista, il manovale ed il meccanico.Ora succede che in Italia dal 2009, cioè in piena crisi economica, vengono pubblicati rapporti dai centri studi delle associazioni di categoria, da Confartigianato a Unindustria, dove viene segnalato come la crisi di vocazione di molti mestieri artigianali, ha praticamente fatto tabula rasa di molte piccole imprese artigiane, poiché alla domanda di posti di lavoro in questo comparto nessuno offre la propria forza lavoro. E questo è un fenomeno ormai deflagrato.


Allora, il punto non è che i migranti, che siano profughi o meno, tolgono il lavoro agli italiani, il punto è che in Italia non esiste governance territoriale, che possa creare le condizioni per far incontrare domanda e offerta di lavoro su attività che stanno scomparendo coinvolgendo proprio chi è portatore di quelle abilità. Cioè il problema vero è rappresentato dall’incapacità di leggere i bisogni e creare delle strategie di lungo periodo che mettano insieme sviluppo locale e welfare.
Ad Ayman e ai suoi compagni di sventura non resta che lavorare in nero e a chiamata, grazie ai caporali delle cooperative di facchinaggio, per essere ancora più sfruttati di quanto non lo fossero in Libia, oppure potrebbe essere inserito in qualche "improbabile" progetto finanziato dagli enti locali o dall’Europa, per fare delle borse lavoro in aziende che mai gli sottoscriveranno un contratto futuro.



Forse è arrivato il momento di ragionare sul concetto di governance territoriale, e l’unificazione delle due aziende pubbliche di servizi alla persona di Bologna, potrebbe rappresentare una occasione da non perdere...
 

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