PER LE STRADE DI ISTANBUL



 
Il risveglio dell’Imam, dagli altoparlanti che rimbombano in tutta la città, è alle sei del mattino, ma il venerdì, giorno di preghiera ufficiale, per tutti i paesi islamici, dura un po’ di più. Nelle moschee è il giorno in cui i turisti difficilmente possono entrare, data la sacralità della giornata, ma in quella principale di Sultanahmet, i credenti e i turisti si mischiano. In molti dicono che quella sia la più grande, ancor di più della celeberrima moschea blu. Sultanahmet è il quartiere che rappresenta il cuore di Istanbul, il cui punto nevralgico è la piazza che ospita l’imbarcadero, da cui si può prendere il battello per fare il tour sul mar di Marmara, tra la costa asiatica e quella europea.


 
Come è noto, prima di entrare nella moschea occorre togliersi le scarpe e le donne devono indossare un copricapo. Senih, la nostra guida, si arrabbia con un paio di turiste entrate senza questo accorgimento: "io non sono musulmano, ma è una questione di rispetto nei confronti di ciò che rappresenta questo tempio per la gente che viene a pregare…" In effetti, la parole di Senih sono una precisa chiave di lettura di questo paese, nato dalle rovine dell’Impero ottomano nel 1923, per opera del padre della patria Mustafa Kemal Ataturk. E' lì che la Turchia iniziò a contraddistinguersi come repubblica costruita sui valori del laicismo.



 

 Se da un lato circa metà della popolazione è musulmana, dall’altro esiste un rispetto profondo per le ritualità religiose da parte di chi non è credente. Sembra una dimensione di grande solidarietà comunitaria, forse anche legata alla fortissima identità di popolo, che è possibile notare appena si mette piede a Istanbul, grazie alle miriadi di bandiere nazionali appese ai balconi o nelle strade, roba che in Italia appare solo durante i mondiali di calcio. Ma il rapporto tra islamismo e laicismo, forse è anche connotato dal fatto che non ci sono due credi religiosi esplicitamente a confronto, cosa che in tutti i paesi musulmani, genera un conflitto. A Istanbul sembra semplicemente una forma di rispetto tra chi è credente e chi non lo è.


 

 
Ed è proprio questo elemento che potrebbe rappresentare la grande speranza del nostro tempo, cioè quella di un paese islamico su cui si innestino i criteri di uno stato democratico di tipo occidentale, laddove si possa fondare una prassi istituzionale da promuovere in medioriente. In questa ottica la Turchia è forse l’unico paese potenzialmente in condizione di innescare questa sintesi.


 
 

Camminando per le strade di Istanbul è proprio questa l’aria che si respira. Alla fermata del tram ti può capitare d’incontrare la ragazza truccatissima, col tacco quindici, insieme alla donna che indossa il burka, per non parlare del "turban", il velo islamico utilizzato da tantissime donne, anche in modo diverso, come ad esempio quelle ragazze che lo abbinano, con raffinatezza, al taglio e al colore degli abiti.

 


C’è da dire che il dibattito sul turban in Turchia si è riacceso con le controverse leggi sulla democratizzazione promosse dal primo ministro. Il demiurgo sunnita Erdogan, fido alleato dei Fratelli musulmani, da un lato cerca di accreditarsi presso l’Unione Europea, con cui è stato aperto un nuovo capitolo negoziale, dopo tre anni di stasi, dall’altro si erge a baluardo dell’islamismo più o meno moderato, in antitesi agli estremismi sciiti di Iran e Siria, con in mezzo al-Qaeda, da cui riceve continue minacce di attacchi su Ankara e Istanbul.

 


 
Il punto è che qualsiasi processo di democratizzazione non può che essere attraversato dalla libertà di espressione, intesa nel senso ampio del termine, invece sembra che il governo Erdogan voglia imporre esclusivamente le regole della sharia o giù di lì. Ha giustamente revocato il divieto dell’uso del sultan per le donne che lavorano negli uffici pubblici, ma al tempo stesso, attraverso le critiche aspre del suo portavoce, ha fatto si che una presentatrice televisiva venisse licenziata per i vestiti scollati. In una democrazia una donna dovrebbe avere la libertà di coprirsi e allo stesso modo potere usare la medesima libertà per scoprirsi.




  

Come in ogni città del mondo, anche a Istanbul esistono i luoghi tipici per i turisti e quelli per gli indigeni. In una zona di Sultanahmet, scopriamo un’interessante ritualità commerciale, molto atipica. Ci inoltriamo in un dedalo di caratteristici ristorantini a basso costo, più simili a piccole locande, dove i turisti solitamente non entrano. Sull’uscio di ognuno di questi un "butta dentro" insegue le persone per farle entrare. Senih, ci dice una cosa che all’inizio non riusciamo a comprendere pienamente, e cioè che possiamo ordinare qualsiasi piatto in uno di questi locali, sedendoci però nel locale accanto, dove poter ordinare altri piatti, per pagare il conto in quest’ultimo: "Questa è Istanbul!" Esclama sorridendo...

 


Le lingue più usate che sentiamo in queste strade strette e caratteristiche sono l’inglese, l’italiano e lo spagnolo. E' il prodotto dell'emigrazione di ritorno. Se durante gli anni sessanta e settanta l’emigrazione turca si era prevalentemente rivolta verso la Germania, dove ormai si parla di insediamenti di terza generazione, negli anni a venire l’Italia e la Spagna sono state spesso mete temporanee. Perché i processi migratori, sia in entrata che in uscita, coinvolgono delle fattispecie legate al contesto socioeconomico e giuridico dell’intero territorio nazionale. Due fenomeni in particolare sono interessanti da annotare. Il primo riguarda sempre una emigrazione di ritorno, che coinvolge però i figli degli emigranti dei decenni passati, diventati adulti, che scelgono di vivere ad Istanbul, luogo sognato per tutta la vita. Germania, Austria, Belgio, Francia sono i paesi di provenienza, le cui lingue madri tedesco e francese restano tali pur vivendo a Istanbul. Sono laureati, parlano più lingue e hanno riconquistato quella identità da sempre agognata: nel loro passato non erano né turchi né francesi, né turchi né tedeschi, e così via. Adesso sanno chi sono…





L’altro fenomeno è relativo ai profughi che arrivano da varie rotte, sia dai confini frontalieri che dal mare. Su tutto il tema relativo all’asilo politico la Turchia si sta lentamente adeguando alle dinamiche europee, vista la candidatura per diventarne membro, poiché tradizionalmente la Turchia non concede la protezione internazionale ai cittadini non europei… Ma c’è anche un’emigrazione molto particolare di tipo economico, di persone provenienti da paesi prevalentemente limitrofi, che non sono stanziali, poiché una volta finita l’attività lavorativa o commerciale se ne tornano a casa. Sul territorio sono presenti una ventina di nazionalità diverse, se si raffronta questo dato ad una città italiana di media grandezza come Bologna, dove di nazionalità ce ne sono centosessanta, si possono comprendere le profonde differenze.

 


La libertà di espressione, è questo, dunque, il banco di prova per ogni democrazia. Il caso della leader delle Pussy Riot è abbastanza emblematico: mentre scontava due anni di campo di lavoro, per una performance anti Putin, veniva prelevata e spostata in una colonia penale in Siberia, a causa della lettera nella quale denunciava le condizioni carcerarie russe. Certo, i fatti di piazza Taksim a Istanbul un segno l'hanno lasciato in tutta Europa. Far passare l'idea che chi protesta sia un terrorista, da reprimere con la forza, non è certo un segnale rassicurante, nell'ipotesi che la Turchia diventi membro dell'Unione Europea, la quale ha già il suo bel da fare a tenere a bada Victor Orban, il primo ministro nazionalista ungherese.


 


Ma c'è un altro fatto, questa volta che riguarda una cattedrale: Santa Sofia. E' uno dei luoghi più intrisi di storia e di magia al tempo stesso, visto che da cattedrale cristiana venne trasformata in moschea, dopo la caduta di Costantinopoli, per diventare un sito museale con la nascita della repubblica di Attaturk, proprio per dargli un valore universale, nel rispetto della storia. Visitare Santa Sofia è davvero una esperienza emozionante, poiché si entra in uno spazio senza tempo, assolutamente remoto, dove immergersi, anche per chi non è credente, in una dimensione spirituale assoluta. Ecco, il punto è che il primo ministro vuole, dopo la fase di ristrutturazione, riattivarla come moschea, per riprendere in mano il mito dell'impero ottomano e islamizzare anche ciò che di universale c'è in una città culla della storia. Questa sembra essere la realtà...

 



Ma la speranza o l'auspicio che ci possa essere un'altra realtà non la vogliamo perdere. Una realtà dove riuscire a garantire il giusto equilibrio tra l'islamismo e il laicismo, così com'è nelle strade, senza cioè allontanarsi dal paese reale, facendo leva sul senso di comunità del popolo turco e rispettando la libertà di espressione. Se così fosse questo paese, anello tra Europa e medioriente, dalla storia passata potrebbe tornare ad essere centrale nella storia futura.



Foto: Radio Cento Mondi

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