Burgas, avamposto delle contraddizioni europee




Burgas è la terza città della Bulgaria. Si affaccia sul mar Nero, ed è molto movimentata nel periodo estivo, vista la sua bella spiaggia, sovrastata da un parco che si allunga per tutta la costa. Il minuscolo aereoporto accoglie gli stanchi viaggiatori che arrivano dall’estero, poiché i collegamenti sono poco dinamici: dall’Italia occorre fare due o tre scali a seconda della compagnia. Entrare nella realtà di questa città, porta in qualche modo ad immergersi dentro le contraddizioni di un paese che dal 2007 è entrato nell’UE, con un’organizzazione sociale scarsamente attrezzata ad affrontare le sfide del nuovo millennio, nel contesto di un’Europa che non riesce a far quadrare i costi sociali della crisi economica internazionale.

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Hristo ha ventisei anni, ha studiato in Italia e lavora come insegnante in una scuola elementare. Lo incontriamo all’interno del workshop internazionale svoltosi a Burgas sullo scambio di prassi tra città europee, in relazione alle politiche di inclusione sociale, all’interno del progetto europeo Mistra: “Questa è una città dove tutto sembra fermo… Non riesco a vedere come potrebbe essere il futuro, il mio intento è quello di riuscire a tornare in Italia per lavorare… ” Hristo ha una sorella che vive a Vienna, ma l’Italia per lui rappresenta una specie di seconda casa. Le sue parole ci colpiscono, poiché fotografano i dislivelli di percezione e di realtà tra le diverse aree geografiche del continente. L’Italia, in effetti, è molto vicina ad alcuni paesi dell’ex blocco sovietico, prima che dal punto di vista geografico, da quello culturale, almeno in termini di assonanze. Però è molto lontana rispetto alle percezioni sociali, laddove viene vissuta come un eldorado dove poter ricostruire una esistenza.
 

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Del resto la generazione di Hristo, ormai da mesi, è in mobilitazione nelle piazze della capitale Sofia, come di altre città, per protestare contro un sistema di potere di tipo oligarchico, ancora più sclerotizzato di quello italiano, il che è tutto dire… Le proteste, innescate nell’estate 2013, hanno visto una grande mobilitazione, mentre i riflettori erano accesi sulle altre due grandi contestazioni popolari: Turchia e Brasile. Dopo quaranta giorni i manifestanti arrivarono a circondare il parlamento bulgaro, chiedendo le dimissioni del governo da poco rocambolescamente insediatosi. “Siete tutti corrotti! - urlava la gente -  dovete dimettervi!”.
 

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Parlavamo di assonanze tra Italia e Bulgaria che emergono impietose se si va a guardare come nasce l’ultimo governo. Alle elezioni di maggio 2013, i due maggiori partiti, quello socialista e quello conservatore, non riescono, nessuno dei due, a raggiungere una maggioranza, visto che ambedue sono considerate dall'opinione pubblica organizzazioni oligarchiche e corrotte. Con un colpo di teatro, il presidente incaricato, il socialista Plamen Oresarski, riusciva a formare un governo con due partiti minori, tra cui quello della minoranza turca. Poi, nominava capo della sicurezza nazionale un magnate accusato di corruzione. Tutto questo nel contesto di un paese a cui non restano più neanche gli occhi per piangere.
 

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Una volta finite le ondate di protesta, sono cominciate le occupazioni nelle università, i cui artefici sono costretti a difendersi dai tentativi di screditamento da parte dei mezzi di informazione vicini al partito socialista, ma anche dai tentativi della destra di cavalcare la contestazione. La principale richiesta degli studenti è una sola: le dimissioni del governo! Il punto è che non si tratta di uno scontro politico, ma di una richiesta di cambiamento del modello di organizzazione sociale, ormai in stato comatoso. “Come si fa a vivere in questo modo?  - s’interroga Hristo - Qui non ci sono speranze, non c’è lavoro, non c’è niente che si possa fare per migliorare la nostra condizione…” Ma queste parole quante volte le abbiamo sentite dai giovani italiani che scelgono di andare via dall’Italia…?
 

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L’ambito del welfare è forse quello dove maggiormente può cogliersi l’inadeguatezza dell’organizzazione sociale bulgara, soprattutto quando è accompagnata da vuoti legislativi che diventa difficile colmare, con la sola buona volontà delle istituzioni territoriali. Sono due i casi tipo più interessanti, per ciò che concerne il tema dell’inclusione sociale. Il primo è di recentissima nascita, poiché risale a pochi mesi fa, e riguarda l’arrivo dei profughi siriani, prevalentemente donne e bambini. Non esistendo nessun tipo di legge e nessun tipo di azione governativa, come potrebbe essere lo “Sprar” in Italia, cioè il sistema di accoglienza dei rifugiati, promosso dal ministero dell’Interno, la gestione di una vera emergenza come questa diventa difficile, poiché oltre al concentramento di questa gente in luoghi, più simili ai nostri CIE che ai campi profughi classici, è impensabile pensare ad interventi di inclusione sociale. Ed è proprio questo il bisogno espresso dagli operatori di Burgas, cioè quello relativo all’assenza di iniziative ministeriali tese a facilitare l’intervento sul territorio. C’è da dire che nel caso specifico ritorna, forse in termini ancora più tragici che in Italia, l’assurdità della regola europea di Dublino, che impedisce ai richiedenti asilo di spostarsi in qualsivoglia paese, poiché costretti a rimanere nel primo stato europeo dove si arriva, e quindi dove vengono prese le impronte digitali.
 

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Il secondo caso è un fenomeno antico, anzi è il tema forte di molti paesi dell’est: l’inclusione dei rom. Ora, se nel resto d’Europa molti paesi, soprattutto quelli nel bacino del mediterraneo, devono approcciarsi al fenomeno rom, le cui caratteristiche sono legate alle dinamiche del nomadismo, in Bulgaria essi sono prevalentemente stanziali. Ma la stanzialità non è certo garanzia di integrazione, anzi al contrario… Infatti, quasi metà della popolazione di Burgas è rom, ma questi sembrano cittadini fantasma, che vivono ai margini, ed è difficile comprendere per chi osserva un tal fenomeno dall’esterno, se la marginalità è cercata o prodotta da forme di discriminazione. A quello che dicono gli operatori sembra che ambedue siano le cause, ma è chiaro che a prescindere dalle percezioni dei cittadini di Burgas, il tipo di organizzazione sociale non facilita affatto l’inclusione sul territorio.
 

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La dimostrazione della situazione magmatica sta tutta in una delle problematiche che le istituzioni territoriali della città stanno cercando di approcciare, cioè quella relativo al numero identificativo dei minori. E’ una sorta di codice fiscale, che si da insieme all’atto di nascita. Il problema nasce dal fatto che i genitori rom non denunciano le nascite, quindi i bambini non possono accedere, senza numero identificativo, ai servizi scolastici. “I bambini non vengono denunciati alla nascita – osserva un’insegnante – perché nel migliore dei casi devono andare in strada a racimolare un po’ di soldi per la famiglia, mentre nel peggiore vengono venduti a famiglie più agiate. E’ un vero e proprio business!”
 

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Se questa è la criticità sociale più caratterizzante del territorio di Burgas, c’è da dire che diventa difficilissimo intervenire soprattutto perché esiste tradizionalmente un grandissimo scollamento tra le istituzioni pubbliche, le scuole e quelle organizzazioni che in Italia connotiamo nei termini di privato sociale. Non solo queste tre dimensioni non riescono a dialogare tra di loro, ma, spesso, le organizzazioni di privato sociale, non vengono riconosciute come interlocutrici. Esiste poi un'altra frattura tra le diverse istituzioni pubbliche cittadine, che oltre a non dialogare, spesso confondono il livello delle responsabilità, con un tristissimo scarica barile.
 

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"Abbiamo bisogno di intervenire subito su più livelli – sottolinea una direttrice scolastica – occorrono azioni concrete per non fermarsi alle discussioni teoriche… E comunque senza un cambio di passo delle istituzioni governative, con il loro coinvolgimento diretto su queste problematiche, il pericolo è che da soli, a livello cittadino, tutto sarà difficile, molto difficile…”

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